Urban farming: da pratica sostenibile a nuova nicchia di consumo
di Felice Adinolfi
Al centro della capitale amministrativa dei Paesi Bassi, L’Aia, spunta da qualche mese un blocco verde posto sulla cima di un edificio di cemento costruito nell’immediato dopoguerra, al servizio della Philips. Si tratta di una delle più grandi serre urbane e di uno dei più importanti progetti europei di urban farming.
Il progetto nasce alla fine del 2015, a seguito di un concorso lanciato dal consiglio comunale locale per il recupero del vecchio edificio industriale, marginalizzato dalle traiettorie dello sviluppo urbano. A vincerlo è l’azienda Urban Farmer, che ha deciso di coltivare pomodori, cetrioli e altri ortaggi per servire il consumo cittadino di prodotti freschi. Un progetto ambizioso che prevede di fornire poco meno di mille famiglie residenti, oltre alla creazione di un’offerta ristorativa accompagnata da una scuola di cucina. Non saranno serviti solo vegetali, ma anche frutti di mare e altri prodotti ittici, allevati al piano inferiore utilizzando l’acqua e i nutrienti utilizzati per alimentare le oltre 50 tonnellate del tetto vegetale olandese. Uno dei tanti esempi e dei tanti volti del rapido sviluppo di quel fenomeno che stiamo imparando a conoscere come urban farming.
Non è solo un modo per produrre cibo sul proprio balcone o, attraverso moderne tecnologie, nel proprio appartamento. Non è solo un comportamento sostenibile che origina dall’ampia attenzione catturata dal km 0 e dai suoi potenziali effetti sul miglioramento dell’ambiente e della salute. Oggi è sempre più anche un nuovo e definito stile produttivo. Con un carattere rivoluzionario, se pensiamo alla millenaria resistenza di un modello agricolo stereotipato dalle sue connessioni con la terra e il clima. Non necessariamente serve la terra e non necessariamente serve il sole, come ormai da tempo ci hanno insegnato le tecniche di agricoltura in ambiente controllato: nutrienti e luce vengono generati altrove, con soluzioni liquide e lampade che riproducono lo spettro solare e mettono il materiale vegetale nelle migliori condizioni di crescita. Ma non solo. Oggi tutto questo si trasferisce nel centro delle città. È protagonista di processi di riconversione urbana, ma anche e soprattutto di riconnessione tra la città e il cibo, concetto nel quale possiamo includere tutte le iniziative che promuovono il collegamento tra i modelli di sviluppo urbano e la produzione di cibo.
L’urban farming fa entrare l’agricoltura in città in modo permanente, contribuisce alla ridefinizione del concetto di sostenibilità urbana ed è sempre più un tratto che caratterizza fortemente anche il volto architettonico delle città. E oggi tutto questo è sempre più impresa. L’esempio della vecchia centrale Philips a L’Aia non è infatti l’unico. Stessa trama a Londra dove la GrowUp Urban Farms ha recuperato un vecchio edificio industriale trasformandolo in Unit 84, un’azienda idroponica verticale che produce pesce e insalate. A Berlino è addirittura all’interno del supermercato che si consumano produzione e vendita. Grazie ad una iniziativa del gruppo Metro che ha sviluppato direttamente nello store un sistema di produzione idroponica.
Attorno a questa interpretazione moderna e molto hi-tech della riconnessione tra urbano e rurale sta nascendo un consenso che si traduce sempre più in disponibilità all’acquisto dei prodotti dell’agricoltura urbana. Sta nascendo una nuova nicchia di consumo che fa leva su credenziali ambientali e salutistiche del cibo che per la prima volta non sono collegate alla terra, ma a soluzioni tecnologiche impiantate in ex edifici industriali. Un buon esempio di economia circolare grazie alla capacità di convogliare in uno spazio ristretto risorse naturali, input tecnologici, consumo e riuso.