17 Aprile

Pere, il problema resta il fattore prezzo

L’offerta ancora disaggregata rappresenta un implicito vantaggio per la grande distribuzione. Marketing e politiche di marca nuove leve per il rilancio del settore.

 

L’approccio è ormai fortemente orientato al marketing, indirizzato sulle leve della comunicazione e del branding. Con risultati in molti casi soddisfacenti, ma in altri ancora distanti dai target programmati.

 

È un bilancio, come si usa dire in questi casi, in chiaroscuro quello delle pere italiane, comparto di punta della frutticoltura tricolore che sconta però ancora la mancanza di una regia unica nazionale, nonostante i passi in avanti compiuti con la nascita dell’Organizzazione interprofessionale (OI). Il suo ruolo, complementare alla commercializzazione che non rientra nelle competenze specifiche dell’OI, è sostenere gli operatori con attività di coordinamento e di monitoraggio della produzione e dei mercati.

 

Proprio alla luce di questa esperienza, non si può dire che sia mancato un disegno strategico, né tanto meno un impegno sul piano operativo, nell’esigenza di superare le criticità del settore. Anche se l’intento di rafforzare l’aggregazione, dopo l’esperienza negativa dell’Igp, l’Indicazione geografica protetta, che avrebbe dovuto far decollare le vendite di pere dell’Emilia Romagna, senza centrare l’obiettivo, è rimasto almeno in parte incompiuto, di fronte a una compagine produttiva che appare per certi versi riottosa all’aggregazione.

 

Per ammissione degli stessi vertici dell’OI Pera l’offerta resta tuttora troppo frammentata. Una caratteristica che esaspera la concorrenza interna, schiacciando i prezzi e limitando, fino ad annullarla, la marginalità delle aziende. Fenomeno che implica, tra l’altro, una condizione di vantaggio a favore della Grande distribuzione organizzata, facilitata nel suo ruolo da una controparte che, anziché mostrarsi coesa, continua a muoversi in ordine sparso.

 

Tornando agli aspetti del marketing, con un approccio innovativo il Consorzio Opera, che sulla comunicazione e la brand identity ha impostato un’efficace strategia di valorizzazione del prodotto italiano di qualità, è riuscito a mettere insieme più di 1.000 produttori di pere per quasi 7.000 ettari coltivati, distribuiti nelle aree vocate dell’Emilia Romagna e di alcune province venete e lombarde.
Numeri che non bastano però a fare massa critica né a contrastare le derive di quella parte produttiva che resta disaggregata e che ancora rappresenta una quota preponderante della superficie nazionale.

 

Si consideri che, sulla base dei dati dell’Istat relativi al 2018, la superficie a pero si aggira in Italia attorno a 30.000 ettari, per oltre il 60% concentrati in Emilia Romagna, dove il grosso delle produzione si realizza nelle province di Ferrara e Modena. Seguono, nella classifica regionale, Veneto, Sicilia, Piemonte e Lombardia.

 

Per volumi di produzione, con 730.000 tonnellate circa, spiega il Centro sevizi ortofrutticoli (Cso) di Ferrara, l’Italia è prima in Europa e terza a livello mondiale, preceduta solo da Cina e Argentina.
Il problema numero uno resta tuttavia quello dei bassi prezzi alla produzione che, a fronte di una struttura dei costi troppo rigida, disincentiva gli investimenti aumentando il rischio di espianti.

 

Sul mercato interno le stime del Cso attestano il consumo di pere attorno alle 400.000 tonnellate l’anno, con un ruolo prevalente, tra i canali d’acquisto, della grande distribuzione. Ma la vera sfida sarà intercettare i Millennial, di fronte a un consumo sbilanciato attualmente sulle classi di età più avanzata.

 

Quanto alle esportazioni, mediamente l’Italia vende sui mercati esteri circa 150.000 tonnellate di pere l’anno, per un valore attorno ai 160 milioni di euro. Prioritario tra gli sbocchi il ruolo della Germania, dove converge il 40% dell’export italiano, seguita da Francia, Romania, Austria e Regno Unito.
L’anno scorso, in controtendenza con la dinamica generale del comparto frutticolo, l’export di pere Made in Italy ha messo a segno un progresso di oltre il 12%, limitato però a meno di 4 punti percentuali nel corrispettivo monetario (173 milioni di euro). La bilancia commerciale ha chiuso i dodici mesi con un avanzo con l’estero di oltre 100 milioni di euro, in netto miglioramento rispetto al saldo attivo di 80 milioni archiviato nel 2017.

 

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