Mais: la crisi di un pilastro del made in Italy agroalimentare
Prezzi bassi, problematiche sanitarie e produttive hanno determinato un forte calo delle superfici coltivate a mais, tanto che siamo di fronte a un allarmante abbassamento del livello di autosufficienza. È essenziale individuare strategie di filiera e di mercato per invertire il trend e non mettere a rischio le eccellenze agroalimentari a denominazione d’origine
Nonostante sia uno dei pilastri del made in Italy agroalimentare, in quanto materia prima fondamentale per la filiera della carne suina e bovina e di quella lattiero-casearia, il mais italiano soffre da diversi anni di una crisi delle superfici a coltura.
Le motivazioni alla base del calo dell’affezione degli agricoltori italiani nei confronti di questo cereale sono relativamente recenti. Meno di 20 anni fa, all’inizio del nuovo millennio, le superfici investite a mais per la produzione di granella ammontavano a oltre 1 milione di ettari e il tasso di autosufficienza del Paese per questa commodity si collocava sopra il 90%. I prezzi, non particolarmente elevati, erano comunque in grado di remunerare i maiscoltori grazie alle indennità accoppiate.
Da allora le cose sono molto cambiate. La drammatica siccità del 2003, ricordato nelle campagne italiane come l’annus horribilis del mais, ha iniziato a minare questa coltura causando, oltre al calo delle produzioni, problematiche sanitarie da contaminazione di aflatossine (legate, appunto, agli stress idrici). Nelle annate seguenti la recrudescenza di attacchi di insetti (diabrotica e piralide), assieme ad andamenti climatici sfavorevoli, in una sequenza di emergenze quasi ininterrotta, hanno determinato frequenti oscillazioni nelle rese come mai era invece accaduto nella seconda metà del secolo scorso. Anche il trend di crescita delle rese si è interrotto, tanto che i produttori spagnoli, che a metà degli anni 90 raccoglievano in media 2 t/ha in meno rispetto a noi, oggi ne producono una in più e, soprattutto, in misura più stabile.
Da allora le superfici coltivate hanno iniziato a calare, fino a toccare nel 2018 il minimo storico dell’ultimo secolo, meno di 600.000 ettari. Alle problematiche citate vanno aggiunti anche il disaccoppiamento degli aiuti comunitari, il greening e un quadro di prezzi nazionali e internazionali deboli.
Ovviamente le filiere zootecniche hanno necessità del mais per alimentare gli animali e, fatto salvo quello trinciato che per la stragrande maggioranza viene autoprodotto dalle aziende agricole con allevamento, la granella scarseggia e va importata.
Il tasso di autosufficienza attuale è attorno al 50-55%, con un esborso netto per le importazioni (soprattutto dall’Est Europa e dal Brasile) che si aggira sul miliardo di euro. Siamo così avviati a «mangiarci» quasi il 40% del valore totale delle esportazioni di salumi e formaggi dop che il mais contribuisce ad alimentare insieme alla soia, il cui import costa un altro miliardo di euro.
A fronte di un fabbisogno nazionale di 11,5 milioni di tonnellate circa, nel 2018 l’import di granella ha sfiorato i 5,8 milioni, tant’è che nel comparto delle produzioni dop (Parmigiano Reggiano, Prosciutto di Parma e altre) crescono le preoccupazioni sul fatto che la loro «italianità» possa essere sostenuta nel medio e lungo periodo, considerato che i disciplinari di queste nostre eccellenze agroalimentari prevedono per i mangimi l’impiego prevalente di materia prima di origine locale.
Superare queste criticità e rilanciare la produzione di mais è l’obiettivo che si è prefisso il “Tavolo tecnico del settore mais”, un progetto del Ministero delle politiche agricole e di Rete Qualità Cereali Plus-Mais coordinato dal CREA per la cerealicoltura di Bergamo. Al progetto partecipano, oltre al Ministero, gli operatori di filiera, gli assessorati all’agricoltura regionali e il CREA, le organizzazioni agricole, le università Cattolica di Piacenza e di Torino, le associazioni del settore cerealicolo, gli stoccatori consortili e privati, le associazioni del movimento cooperativo e quelle del settore della trasformazione.
Tra le azioni suggerite dagli esperti ci sono il sostegno alle innovazioni, in campo genetico e nei sistemi irrigui, il sostegno alla rete pubblica dei confronti varietali implementata alla valutazione della qualità tecnologica, nutrizionale e sanitaria, la promozione di aggiornati strumenti di mercato e, in prospettiva, una premialità per le produzioni in filiera. Infatti, il settore potrebbe trarre beneficio dalla definizione di contratti di filiera, da un’armonizzazione delle normative vigenti e di un Piano maidicolo nazionale, la cui nascita è ancora in discussione.