Lo stop al consumo di suolo attende ancora una legge
Molte le proposte, ma manca una norma quadro nazionale. E intanto l’agricoltura perde ogni anno da 17.000 a 35.000 ettari di superfici coltivabili e ogni due ore spunta una nuova piazza Navona.
L’eterno incompiuto. Oggetto di più disegni di legge impantanati tra Camera e Senato, quello del consumo di suolo resta un tema prioritario, ma non esiste ancora una legge nazionale che disciplini in maniera organica e univoca la materia. La mancanza di una norma quadro è emersa anche in occasione dell’audizione al Senato della Conferenza delle Regioni nelle Commissioni riunite Agricoltura e Territorio, tenutasi il 2 luglio scorso.
Una disciplina che non investe solo l’urbanistica, ma che interessa anche altri settori, a iniziare da quello agricolo, considerando che, nel periodo 1990-2017, le campagne hanno perso annualmente da 17.000 a 35.000 ettari di superfici coltivabili, per lo più destinate all’urbanizzazione.
La prima proposta di legge in materia risale al 2012 e fu avanzata dall’allora ministro delle politiche agricole del Governo Monti, Mario Catania, con l’obiettivo di valorizzare e tutelare i terreni agricoli e di contenere il consumo di suolo. Tra le proposte, la fissazione per decreto di un’estensione massima annua di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale e un vincolo di destinazione di 10 anni per i terreni agricoli percettori di aiuti di Stato o comunitari.
Ad oggi sembra che i disegni di legge nei due rami del Parlamento abbiano superato ormai la decina, su due dei quali, in particolare, sembra concentrarsi l’attenzione dei gruppi parlamentari: il ddl 86, presentato dalla senatrice Loredana De Petris (Gruppo Misto) e il ddl 164 presentato dalla senatrice Paola Nugnes (M5S, recentemente passata al Gruppo Misto).
Il secondo punta in particolare ad arrestare il consumo di suolo per contrastarne il dissesto, l’impermeabilizzazione e gli effetti dei sempre più frequenti eventi meteorologici estremi. La salvaguardia del suolo è intesa insomma come una misura essenziale per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, per il contrasto alla perdita di biodiversità e per l’arresto dei fenomeni di desertificazione.
La soluzione – come spiegato dalla stessa senatrice Nugnes – è evitare che il settore delle costruzioni si limiti solo all’edificazione ex novo, vale a dire alla nuova cementificazione, ma che agisca invece prevalentemente attraverso il recupero e l’abbattimento con ricostruzione, traendo vantaggi senza sottrarre terreni all’attività agricola o a destinazioni naturali.
D’altro canto, tra nuove infrastrutture e cantieri, spiega l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, si invadono aree protette e a pericolosità idrogeologica, sconfinando anche all’interno di aree vincolate per la tutela del paesaggio.
La superficie naturale si è assottigliata nel 2017 (ultimo dato disponibile) di altri 52 chilometri quadrati. In altre parole, ogni due ore spunta un’intera piazza Navona. E anche se la velocità si stabilizza a una media di 2 metri quadrati al secondo, si tratta solo di una calma apparente, dato che i valori sono già in aumento nelle regioni in ripresa economica, come accade nel Nord-Est del Paese.
Tutto questo – spiegano ancora gli analisti – ha un prezzo pari a circa un miliardo di euro se si prendono in considerazione solo i danni provocati, nell’immediato, dalla perdita della capacità di stoccaggio del carbonio e di produzione agricola. Ma la cifra aumenta se si considerano i costi (circa 2 miliardi l’anno) provocati dalla carenza dei flussi annuali dei servizi ecosistemici che il suolo naturale non potrà più garantire in futuro, tra i quali la regolazione del ciclo idrologico, il miglioramento della qualità dell’aria e la riduzione dell’erosione.
Sono tre gli scenari tratteggiati dall’Ispra da qui al 2050.
- Il primo, in caso di approvazione di una norma quadro nazionale, porterebbe a una progressiva riduzione della velocità di trasformazione del suolo a 800 chilometri quadrati tra il 2017 e il 2050 (poco più di 24 chilometri quadrati in media d’anno, contro i 52 attuali).
- Il secondo stima un ulteriore consumo di suolo superiore a 1.600 chilometri quadrati nel caso in cui si mantenesse il ritmo attuale.
- Nel terzo scenario si andrebbe oltre 8.000 chilometri quadrati, una superficie pari a quella dei 500 comuni più grandi in Italia, nel caso in cui la ripresa economica portasse di nuovo la velocità ai valori registrati negli ultimi decenni. Sarebbe come costruire 15 nuove città ogni anno fino al 2050, con altre inevitabili perdite di superfici coltivabili e un’ulteriore espansione dei suoli cementificati.