27 Agosto
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Grano duro, le importazioni deprimono i prezzi del prodotto nazionale

Non bastano la buona qualità dei frumenti e il calo dei raccolti a risollevare le sorti del settore. In Puglia le maggiori perdite di resa a causa della siccità.  

 

Il buon livello qualitativo e la scarsa produzione di grano duro, che con appena 3,7 milioni di tonnellate ha toccato un minimo pluriennale, sono due evidenze che contrastano di netto con la dinamica negativa dei prezzi osservata nelle sale di contrattazione nazionali.

 

A evidenziarlo è un’analisi di Cia-Agricoltori Italiani illustrata in occasione dell’ultima riunione del Gruppo d’interesse economico (Gie) per il settore cerealicolo.

 

Le attuali quotazioni, da Nord a Sud, non riescono a coprire neanche i costi di produzione in campagna, spiegano gli esperti. Se si aggiunge l’evidenza di scorte mondiali sottodimensionate, con i volumi attuali in calo del 14% rispetto allo scorso anno, appaiono del tutto ingiustificate le tendenze al ribasso registrate nelle principali borse merci italiane.

 

Un’annata dunque in chiaroscuro per il grano duro, con ottimi riscontri sul piano qualitativo, specialmente nei contenuti di proteine e nel peso ettolitrico, ma con rese ben al di sotto dei potenziali, dopo che interi areali sono stati duramente colpiti dalla siccità e dalle gelate di aprile

 

“Per salvaguardare il made in Italy attuale e futuro – rileva la Cia – e non penalizzare i produttori agricoli che, a fronte di importanti investimenti, si ritrovano ogni anno a fare i conti con i bilanci in rosso, è necessaria un’operazione di chiarezza con gli attori della filiera e il mondo istituzionale”. 

 

I contratti di filiera, sia pure con le criticità che hanno mostrato in questi anni, a partire dagli ingiustificati ritardi dei pagamenti, rappresentano uno strumento di garanzia per gli agricoltori, rendendo più trasparenti i rapporti con la controparte industriale, spiega ancora l’organizzazione agricola.

 

Per Italmopa, l’associazione della molitoria, va evidenziato che la riduzione della produzione nazionale è ascrivibile, in larga misura, alla contrazione del 25% del raccolto pugliese che ha subìto maggiormente le ricadute dell’anomalo andamento climatico. Ciononostante, la Puglia, con una produzione di circa 760.000 tonnellate di grano duro, si conferma il principale bacino produttivo del Paese, precedendo la Sicilia, le Marche e l’Emilia Romagna.

 

Per quanto concerne l’aspetto qualitativo, Italmopa registra sia in Sicilia che in Puglia un incremento di circa un punto percentuale del tenore in proteine, mentre nel resto d’Italia la situazione appare meno favorevole, seppure complessivamente soddisfacente.

 

Le importazioni – spiega l’associazione industriale – costituiscono un’importante complemento dell’offerta interna, strutturalmente deficitaria. Quest’anno si stima che un 40% del fabbisogno nazionale sarà coperto da grani esteri, principalmente canadesi, con il raccolto di Ottawa che, in base alle ultime stime di Statistics Canada, dovrebbe spingersi quest’anno a quota 6 milioni di tonnellate, facendo segnare una crescita del 20% su base annua.

 

Su scala mondiale le valutazioni degli analisti britannici dell’Igc, l’International grains council, attestano la produzione di grano duro a 34 milioni di tonnellate, in lieve aumento (+1,1%) rispetto alla campagna 2019-20. L’offerta mostra però un gap negativo di 1,7 milioni di tonnellate, a causa delle basse scorte iniziali. Giacenze che a fine campagna si ridurranno ulteriormente, portandosi a 6,5 milioni di tonnellate, il livello più basso da 13 anni.

 

Quanto ai prezzi, dopo un esordio sostenuto della nuova campagna, l’ultima seduta sulla piazza di Foggia, prima della pausa agostana, ha decretato una flessione delle quotazioni, sulla falsariga delle precedenti sessioni di luglio, trascinando i listini dei grani con le migliori caratteristiche sotto la soglia dei 300 euro/tonnellata.

 

Significativi gli arrivi di frumenti esteri, che stanno chiaramente contribuendo a deprezzare il prodotto nazionale. Un fenomeno che sta inducendo gli agricoltori a sospendere le vendite a pronti, nonostante gli oneri di stoccaggio e le incertezze sugli sviluppi del mercato, nella speranza di spuntare prezzi migliori nel prosieguo della campagna di commercializzazione.

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